alenti pittori e scultori italiani, francesi e spagnoli ci hanno tramandato le sembianze della "terribile" Cristina; ma con quanta verità? Ne abbiamo sott'occhi uno dei più famosi di questi ritratti, un quadro che ne raffigura solo il busto, volto in modo da presentare una sola spalla e il viso in un bell'ovale che smussa ogni angolosità, toglie la larghezza alla bocca, la lunghezza al naso, e fa spiccare i grandi occhi, che sono come due globi trattenuti fuor delle orbite dalle sole palpebre, mirabilmente espressivi sotto la gran luce dell'alta fronte e i grandi archi delle sopracciglia, aggraziati dallo scorcio. Un bel ritratto, non c'è che dire; e gli altri sono tutti capolavori allo stesso modo. Per forza! Se sa mentire anche il fotografo, quando vuol compiacere, quanto più non deve saperlo il pittore, ritraendo una regina che, benché priva di regni e sovente anche di quattrini, fu sempre regina potente e temuta dai più grandi della terra!

I documenti sono più sinceri e diffusi: non si limitano al solo busto né alle sole sembianze. Uno dell'Oliveriana di Pesaro che data dal 1655, l'anno del primo e trionfale arrivo in Italia di Cristina, la descrive così:
"E' di piccolo corpo, ha la fronte grande, gli occhi chiari, grandi e amabili; il naso aquilino, piccolo e decente; la voce, il modo di parlare, il passo, il gesto tutto è virile. Ogni giorno cavalca all'usato modo delle donne, e sta sì disposta in sella e si maneggia in quella sì bene, che chi non la vede d'appresso, la crede sicuramente un uomo. L'abito da cavalcare, il cappello e il giuppone è alla maniera di Spagna; solamente dalla veste lunga si conosce esser donna, e, benché tenga un sol piede in staffa, mette in corso sì forte il cavallo, che non ha chi la possa seguire".

"L'abito con che cavalca è sì ordinario che non costa cinque scudi. Molto ordinario è ancora quello che porta in Corte, né mai le si è veduto oro né argento in testa, nelle vesti, né meno al collo; solo un anello in dito, non curandosi niente di ornarsi. Si pettina il capo ogni settimana, e talvolta ogni quindici giorni. La domenica spende mezz'ora in vestirsi, gli altri giorni appena un quarticello. Chi le ha parlato afferma di aver veduto la manica della camicia tinta d'inchiostro per il lungo scrivere, anzi talvolta rotta. A chi la esorta ad aver cura del suo corpo risponde che questa è faccenda di persone oziose. Non dorme più di quattro o cinque ore; tardi va a letto e di buonìora si leva, applicando il tempo in letura di libri. Quando deve mangiare in pubblico, le pare andare ad un tormento; quando è sola appena si ciba; sta pochissimo tempo a tavola. Beve di continuo acqua, né mai si lameta della conditura o cuocitura di vivande, e non comanda che si condisca in più modi, anzi s'appiglia alle vivande più comuni, rimandando via le altre. Nessun travaglio è bastante a turbare la serenità dell'animo suo. Teme grandemente la morte".

Ritratto assai vivo e colorito, ma non concorde in tutti i punti con altri dello stesso genere, né, come vedremo poi, in tutto conforme a fatti accertati dalla Storia. L'anno seguente Madame di Monteville, che si trovò all'incontro della Corte di Francia con Cristina al castello Foyet,
ne parla così:
"Ella mi parve più grande di quanto non la si dicesse, e meno gobba. Ma le sue mani, tanto lodate, non erano affatto belle. Saranno ben fatte, non lo nego; ma quel giorno erano talmente sudice, che non si poteva trovare in esse alcunché di bello. Ella non somiglia per nulla a una donna, non ne ha neppure la modestia necessaria. Si faceva servire da uomini anche nei momenti più particolari; e cercava di parer uomo in tutti i suoi atti. Bestemmiava il nome di Dio, e la libertà del suo spirito si estendeva anche ai suoi atti. Alla presenza del Re, della Regina e di tutta la Corte, ella appoggiava le gambe su sedie alte quanto quella che portava lei,  e lasciava vedere liberamente". (...)

Il duca di Guise, che rappresentò il re Luigi XIV alla prima accoglienza di Cristina in Francia, scrisse alla sua corte: "Parla otto lingue, e la francese come se fosse nata a Parigi. Ne sa più della nostra Accademia congiunta alla Sorbonne". E di poi si disse alla Corte di Francia, la più illuminata di allora, che Cristina poteva essere ben otto volte dottoressa.
Tali risultati lasciano immaginare come debba essere trascorsa la sua adolescenza. Studiò voracemente, insaziabilmente; chiamò a sè Sammaire, Feinsheim, Vossius, Heissius, Cartesio, Grotius, tutti i più dotti dei suoi tempi; raccolse una biblioteca che non temeva in Europa altra che la emulasse, collezioni che, alla sua abdicazione, furono stimate d'un valore di oltre due milioni di scudi, e più di ottomila manoscritti ebraici, greci e arabi. Reagiva alle fatiche dello studio con cavalcate sfrenate; e vivendo sempre tra uomini, ché tutti i suoi maestri erano uomini, porè seguire liberamente le propensioni della sua natura, più maschio che femmina, e trascurare sempre più le esigenze del suo sesso.

A sedici anni la sua educazione era completa. (...) Per quanto già in età da marito, ella non aveva ancora nessunissima intenzione di sposarsi. Scrisse allora nel suo diario: "Ero bambina quando promisi di sposare mio cugino Carlo Gustavo (il conte palatino dei Due Ponti). Ora sono grande, e non mi sento più affatto di confermare quell'impegno". e a chi le parlava di matrimonio, diceva:
- Non mi spingete. Non ho nessuna vocazione per il matrimonio. Vorrei essere una vestale. Credetemi: come potrei generare un Augusto, potrei anche generare un Nerone.

Ripugnanza naturale, nelle sue condizioni, come fu pure naturale, in un certo senso, la sua passione per la contessina Ebba Sparre. Solita a disprezzare ed evitare le donne, fece eccezione per la bella contessina, sua coetanea. La prese in amicizia, a compagna inseparabile; e a quell'affetto, sia quel che sia nelle sue espressioni, fu certo il più profondo e durevole della sua vita. Esule raminga tra genti che bene l'accoglievano soltanto quando non potevano fare diversamente, dischiudeva il fondo del suo cuore solo nelle sue lettere ad Ebba (...).

Intanto quasi tutti i principi d'europa facevano a gara per piacere a Cristina che, con tutte le conquiste del padre suo e dei suoi generali, era invero un gran bel partito. Anche il figlio dell'imperatore aspirava alla sua mano, anche le case reali di Spagna e del Portogallo desideravano il suo parentado, e Maria Eleonora, sua madre, fuggendo segretamente dal suo castello per convolare a seconde nozze con Cristiano IV di Danimarca, cedè probabilmente a una manovra per appianare la via verso la mano di Cristina ai principi danesi Federico e Ulrico.

 

 

 
     

 

 

 


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